VIE DEL “BELLO” IN CATECHESI
Quali prospettive?
Cavallino Treporti (VE), 23-25 settembre 2012
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PRESENTAZIONE DEL CONVEGNO
Dalla comunità di pratica alla pratica del bello
Tra un convegno e l’altro
– Salvatore Currò –
Questo mio intervento prende le mosse dallo scorso Convegno dell’AICa (Associazione Italiana Catecheti), tenutosi a Selva di Fasano (25-27 settembre 2011) sul tema: “Apprendere nella comunità cristiana. Come dare un contesto alla catechesi?”. Esso cerca innanzitutto di interpretare la sensazione di “novità” che si è avvertita in tale convegno, a tal punto che qualcuno ha potuto parlare di una “svolta” nel cammino stesso di riflessione dell’Associazione. Tengo conto anche di questo cammino, e in particolare dell’itinerario tematico dei convegni del quadriennio 2010-2013.
Conviene richiamare tale itinerario:
- siamo partiti, nella prima tappa (Convegno di Verbania su “Educazione e catechesi. Un rapporto possibile e fecondo”, 19-21 settembre 2010), con la riproposizione del rapporto e dell’intima connessione tra catechesi ed educazione, nell’orizzonte dello sforzo della Chiesa italiana di evidenziare il significato educativo di tutta la pastorale ecclesiale;
- a Selva di Fasano abbiamo vissuto la seconda tappa: la forza educativa della catechesi è legata all’autenticità dei processi ecclesiali e umani che la supportano;
- il cammino continua nella direzione di esplicitare nuove vie di catechesi, in particolare la via del “bello”(terza tappa); il titolo provvisorio che si era dato, nella programmazione, al prossimo convegno (23-25 settembre 2012) era: “La via della bellezza: arte e poesia nella catechesi”;
- l’itinerario è orientato alla riproposizione, nella quarta tappa (settembre 2013), della questione antropologica e dei soggetti (evidenziando la differenza di genere) della catechesi; il titolo provvisorio suona così: “Il soggetto dell’educazione e della catechesi (con particolare attenzione all’antropologia del desiderio e del dono)”.
Più precisamente, mi inserisco, con questa riflessione, tra la seconda e la terza tappa. Tento di raccogliere la ricchezza della riflessione sul “contesto” della catechesi e di preparare la strada alla riflessione sul “bello”. Il concetto di “pratica” mi sembra una chiave interpretativa promettente.
Lo stile non è quello di un discorso rigoroso e ragionato. La preoccupazione è di offrire suggestioni nel tentativo di intravedere nuovi percorsi di ricerca. Inutile dire che si tratta di una “mia” interpretazione, sia per ciò che riguarda le sfide attuali della catechesi, sia per quanto concerne il cammino dell’AICa. Tante cose, pure importanti, rimangono sullo sfondo e altre interpretazioni sono possibili. Attraverso questa mia riflessione vorrei, comunque, sollecitare gli interventi di altri catecheti, nell’ottica, propria dell’AICa, di promuovere il dialogo e la ricerca catechetica.
1. Il processo: un’attenzione a tutto campo
La ricerca catechetica dell’AICa, mettendo recentemente a tema la questione del contesto ecclesiale, non ha voluto semplicemente ribadire il principio di ecclesialità della catechesi, riaffermando l’importanza che tutta la comunità cristiana sia (divenga) comunità educante. Si è tentato di più, e cioè di considerare la concretezza delle comunità, le loro difficoltà e debolezze, i loro tentativi.
Si è posta l’attenzione sui loro processi e anche sulla loro organizzazione. Tali processi sono stati studiati con uno sforzo interdisciplinare, e anche transdisciplinare, facendo interagire diversi punti di vista, in particolare: il punto di vista pedagogico-culturale, quello ecclesiologico e naturalmente quello catechetico. Inoltre, hanno interagito i punti di vista di tutti i partecipanti, a tal punto che si è creato un clima di ricerca comune che, per molti, è stato il primo vero risultato del convegno. Questo clima è stato possibile – è doveroso sottolinearlo – anche per l’opera di animazione e di vigilanza sui processi degli amici dell’Istituto Pastorale Pugliese, come anche grazie all’attenta preparazione e cura degli aspetti organizzativi.
Non si è trattato di una semplice attenzione alla metodologia, per controbilanciare l’attenzione, in genere prevalente, ai contenuti e agli obiettivi. Non si è trattato nemmeno di privilegiare il confronto piuttosto che l’approfondimento di tematiche e la ricerca di vie nuove. Il Convegno è stato vissuto da ciascuno come luogo di alta ricerca catechetica, sia nei momenti degli input dei relatori, sia nei momenti di gruppo e di dialogo assembleare, sia nei momenti di incontro col contesto ecclesiale e territoriale che ci ha ospitati e che ha nutrito la nostra riflessione. Si è vissuto, in qualche modo, ciò di cui si parlava. Si è parlato di processi cercando di sperimentare dei nuovi processi. Alla fine del Convegno la questione non era tanto quella di come mettere in pratica i contenuti approfonditi, quanto piuttosto di prolungare le dinamiche e i processi vissuti. In breve, si è sperimentato qualche cosa di quell’intima connessione tra teoria e prassi, che caratterizza la ricerca pastorale e catechetica. Si è percepito anche che questa connessione passa per autentiche dinamiche relazionali e per una reale messa in gioco della persona stessa del catecheta (e forse bisognerà fare ulteriori passi in questa direzione). E tutto ciò è avvenuto – bisogna sottolinearlo – non a discapito dei contenuti. Al contrario, il Convegno ha individuato nuove vie di ricerca e ha lanciato grandi provocazioni, a partire dalla prospettiva catechetica, a tutta la riflessione teologica, ecclesiologica in particolare, ma anche antropologica e cristologica.
Si sono utilizzati, poi, dei termini, in parte nuovi, o forse con nuovi significati, o intuendo che essi nascondono significati inesplorati, che hanno bisogno di sperimentazioni pratiche e di riflessioni teoretiche per venir fuori. Sono dei termini (o espressioni) dinamici, a partire dai termini stessi di processo, contesto, apprendimento; ma si è parlato anche di pratica, di comunità ermeneutica, di alterità e differenza, di rinnovamento nel segno del contagio, di soggetto alterato, relazionato e in contesto come luogo della crescita nella fede, di genesi delle comunità a partire dai segni dell’azione di Dio nel mondo, di necessità di abitare i luoghi di confine, di una comunità ecclesiale in processo e dai confini non nettamente delimitati. Si è parlato anche di una Chiesa che continuamente ri-nasce; forse la si è un po’ sperimentata. Qualcuno ha potuto dire ciò che ciascuno, negli itinerari formativi ecclesiali, potrebbe dire: “Mi ci ritrovo”, “Ritrovo me stesso, ciò che mi è donato e ciò a cui sono chiamato”, “Non comprendo bene, ma mi ci ritrovo”. Insomma, un forte intreccio di teoria e pratica; una approfondita riflessione teorica nel contesto di una comunità di pratica, altra espressione, questa, molto utilizzata e che potrebbe dire il senso del lavoro fatto.
2. Dal contesto ecclesiale al soggetto vivente, luogo della catechesi
Se si va oltre l’affermazione di principio, secondo cui la catechesi ha bisogno necessariamente di un contesto ecclesiale, si incontra la concreta comunità cristiana, sempre con tanti problemi e difficoltà.
Talvolta alcune esperienze catechistiche sembrano quasi senza contesto. Si avverte di dover costruire la comunità stessa attraverso la catechesi. Forse bisogna anche uscire dall’idealizzare una comunità senza problemi. Le difficoltà non possono essere anche riconosciute come risorse? Il destinatario-soggetto della catechesi, che non incontra una comunità molto significativa, non è chiamato, anche lui, a costruirla? Non fa parte, questo, del suo essere soggetto fino in fondo? Non possono essere i problemi l’occasione, in certo modo, di superare la separazione tra la comunità cristiana e gli altri, tra la Chiesa e il mondo? Non siamo, in fondo, con gli stessi problemi di tutti e in cammino con tutti? Non dobbiamo lasciarci aiutare, con sincerità, anche da chi è ai margini, o addirittura fuori della comunità? Non è possibile decentrare la problematica dell’evangelizzazione e della catechesi su una polarità più fondamentale rispetto a quella Chiesa-mondo, e cioè sulla popolarità iniziativa di Dio – risposta del soggetto o dei soggetti (evangelizzatore-evangelizzando, catechista-catechizzando…)? Non si possono sperimentare le risorse ecclesiali (a partire dai sacramenti e dalla Parola per arrivare a tutte le altre) come risorse per tutti, che scopriamo e riscopriamo continuamente insieme, proprio mentre le facciamo conoscere agli altri? Si può sperimentare la comunità cristiana come luogo aperto a tutti, che media e aiuta la crescita di tutti, in cui le relazioni sono veramente reciproche e aperte ai doni di Dio? Queste domande, che raccolgono problematiche del vissuto, interpellano la riflessione ecclesiologica e catechetica.
Si vede, nella prassi, che è difficile stabilire i confini tra i cristiani e gli altri, e che è difficile, quindi, stabilire dei criteri precisi di appartenenza alla Chiesa. Ma ci si potrebbe anche domandare se è davvero necessario stabilire tali criteri, almeno in forma precisa. Si vede anche che una pastorale significativa non dovrà semplicemente attuare una conversione missionaria verso il territorio, ma anche costruirsi a partire dal territorio, a partire dalla periferia. Dovrà costruirsi, in definitiva, a partire dalla vita dei soggetti e senza svalutare, o scavalcare, il senso stesso dell’essere soggetto; soggetto attivo, capace di dare e allo stesso tempo chiamato a ricevere, soggetto responsabile, interpellato e provocato ad aprirsi alla grazia di Dio.
A partire da un attento ascolto delle problematiche ecclesiali e da un’autentica pratica del discernimento, si arriva quindi a riconsiderare la questione del contesto della catechesi. Se è vero che lacomunità cristiana deve essere il contesto della catechesi; se è vero anche che la catechesi deve essere strettamente legata alle pratiche ecclesiali (la liturgia, la preghiera, la carità, la vita stessa della comunità); se è vero, inoltre, che, nell’iniziazione cristiana ma anche in tutte le altre espressioni catechistiche, bisogna ritrovare l’ispirazione catecumenale, è anche vero che la comunità è in un contesto umano. Essa vive le problematiche di tutti, si costituisce a partire dal mondo e nel mondo; più precisamente: a partire dai segni della presenza di Dio nel mondo.
In questa prospettiva, la comunità si costituisce come comunità ermeneutica. È comunità di soggetti che si interpretano, si ritrovano, in relazione con le risorse cristiane che sono il frutto del mistero pasquale di Gesù e che sono il suo dono per tutto il mondo, attraverso la mediazione della Chiesa. In definitiva, il contesto ultimo sono, allo stesso tempo, Dio e il soggetto; è Dio misteriosamente operante nella storia di ciascuno; è il soggetto, certamente protagonista, ma, proprio perché protagonista, sinceramente aperto alla verità di sé, e quindi alla verità dell’essere chiamato.
Emerge l’importanza, oltre che di una nuova riflessione ecclesiologica o catechetico-ecclesiologica, anche di una nuova riflessione antropologica. Una tale riflessione dovrebbe evidenziare non solo la costitutiva relazione del soggetto all’altro, ma anche il legame del soggetto a sé, l’alterità che segna il suo essere-sé, e quindi il suo statuto di soggetto-chiamato, donato a se stesso, responsabile, cioè radicalmente in situazione responsoriale. In quest’ottica il soggetto è più-che-soggetto, è più che coscienza di sé. Il sé, in quanto più che coscienza di sé, è il luogo delle fragilità, delle energie inconsce e non dominabili, ma è anche, allo stesso tempo, il luogo delle vere risorse dell’io, il luogo che porta le più grandi tracce della creazione e della redenzione di Dio.
A partire da sé, più che dall’io (cioè dalla coscienza di sé), e cioè riconciliandosi con la propria creaturalità e con lo statuto di dono della propria soggettività, si può, forse, riincontrare veramente il Dio di Gesù Cristo, sorprendersi di fronte al Vangelo e risignificare la propria vita in relazione con le risorse ecclesiali, in un contesto umano ed ecclesiale forse debole, povero, con molte incoerenze, ma allo stesso tempo vero (vero perché povero e aperto all’azione di Dio, non perché perfetto). Questa via è qui appena tracciata.
3. La catechesi e la pratica
Diverse sollecitazioni pongono l’accento sulla pratica, in modi diversi ma convergenti. Un’attenzione ai processi, che non sia semplicemente metodologica o strumentale (che non li consideri, cioè, solo in vista dei contenuti e degli obiettivi) e che coinvolga veramente i soggetti, significa, in realtà, la pratica di vere relazione di reciprocità, di dialogo, di apertura al dono di Dio. Il contesto umano ed ecclesiale della catechesi è una pratica di crescita umana, cristiana, ecclesiale, insieme. La catechesi ha bisogno di pratica, di situarsi in una pratica. Anche le riflessioni sul soggetto e sul suo protagonismo-responsabilità conducono alla pratica. La possibilità di cogliere l’azione di Dio nella propria storia e di cogliere le risorse cristiane-ecclesiali come risorse di crescita, implica una decisione pratica, qualcosa che assomiglia a una conversione; implica un po’ di coraggio. La sorpresa e l’accoglienza di fronte al Vangelo, come anche la disponibilità a camminare in un processo formativo nella Chiesa, si situa su una sorta di esodo continuo del soggetto, al di là (o al di qua) della sua coscienza di sé; esodo fuori di sé che implica il coraggio della riconciliazione con sé. È su questo cammino di esodo che Dio si lascia incontrare. La comprensione della fede e la stessa comprensione di sé alla luce del Vangelo, hanno bisogno di questo sito, di questa dinamica esodale; hanno bisogno di pratica. Sì, un cammino di fede ha bisogno di pratica e, in un certo senso, si pratica prima di credere (un prima di senso, più che cronologico).
Bisogna chiedersi se i nostri itinerari non manchino spesso di pratica e di invito alla pratica, come condizione per poter sorprendersi di fronte al Vangelo. Può apparire paradossale, ma se non si pratica il Vangelo, non lo si comprende. Solamente se si è già (praticamente) nel luogo in cui Dio si rivela, si comprende il senso della sua rivelazione. È una logica altra rispetto a quella che normalmente ci ispira, e che è quella del si comprende e per questo si pratica: se si comprende che il Vangelo ha un senso per la propria vita, ci si apre alla celebrazione liturgica dei doni di Dio e si organizza la propria vita nella prospettiva della carità. In verità, solamente se si pratica, si comprende.
In questo tempo, predisposto ai fondamentalismi, che passa continuamente dalla svalutazione della conoscenza alla sua assolutizzazione, senza posizioni intermedie, è un po’ pericoloso affermare il primato della pratica; potrebbe suonare un po’ fondamentalista, come svalutazione della conoscenza o delle mediazioni educative che favoriscono una graduale presa di coscienza della fede ecclesiale. Bisogna fare attenzione a non favorire i fondamentalismi e a non svalutare le mediazioni e la conoscenza. La conoscenza, o la presa di coscienza, è molto importante. Ma è pure vero che essa, spesso, è de-situata, de-contestualizzata, senza pratica.
Il problema è, quindi, di situare i cammini di fede al di qua della conoscenza; rompere con la mentalità che un soggetto, prima di decidersi, dovrebbe comprendere. Un tale soggetto sarebbe, in fondo, incapace di rischio; e il Vangelo che egli verrebbe a conoscere, sarebbe un contenuto, più o meno integrato nel suo progetto di vita, ma non sarebbe l’esperienza di vivere secondo Gesù Cristo, nel processo della Rivelazione; sarebbe un comprendere senza vero ascolto, sarebbe un comprendere senza veramente comprendere.
Avvertiamo sempre di più dei paradossi nella pastorale. Si parla della comunione, ma con delle pratiche che la sfavoriscono, se non addirittura smentiscono (spesso senza rendersi conto). Alcuni paradossi sono ancora più radicali. Si annuncia Gesù Cristo dentro delle logiche (pratiche) che lo smentiscono. Si annuncia la Pasqua, o la donazione di vita, di Gesù, dentro pratiche che non sono esodali e di donazione. In realtà le pratiche non sono consequenziali alla comprensione, ma con-testuali ad essa. Se la catechesi ha a che fare con la comprensione, o, più modernamente, con un prendere coscienza (ed evidentemente ha e deve avere a che fare con la comprensione), essa deve avvertirsi strutturalmente interpretazione di un già che l’accompagna sempre; deve sentirsi situata nella pratica. E la pratica implica un sentirsi già de-situato del soggetto e un essere già fuori (o prima) della riduzione della Rivelazione al pensiero della Rivelazione; implica l’essere già nel processo della Rivelazione.
Questo de-situarsi, che è un situarsi sulla traccia di Dio, ha un’eco particolare nella sincerità dell’amore (de-centramento sull’altro) e nella sincerità della riconoscenza o della liturgia (de-centramento su Dio, sul Creatore e Redentore). È significativo che la parola pratica evochi simultaneamente, nella tradizione cristiana, sia la liturgia che la carità.
Ma come può la catechesi ritrovare il suo sito? Come può ritrovare la pratica?
4. La via (e le vie) del bello
Una ipotesi (non l’unica) è quella di esplorare la via del bello. E lo si può fare leggendo, valorizzando, interrogando, alcune esperienze che si fanno strada nella pastorale catechistica e che valorizzano l’arte, la musica, la poesia, o che cercano un nuovo rapporto con la liturgia o anche una nuova valorizzazione della Scrittura. Queste vie non si qualificano, almeno sul piano essenziale, in vista di una più profonda comprensione del Vangelo. Non si tratta, in prima istanza, di valorizzare altri strumenti comunicativi rispetto alla parola o di comunicare più esistenzialmente, con un linguaggio più globale. C’è, certo, una questione di linguaggio; di fatto si valorizzano linguaggi altri rispetto al linguaggio verbale o scritto. Ma, in fondo, è in questione un surplus di linguaggio, almeno di quel linguaggio che è dominato dal primato della comprensione. Si potrebbe, forse, indicare questo surplus come un toccare.
Il bello tocca. Nell’esperienza del bello, ci si sente toccati. Allo stesso tempo si tocca ciò che resta, in fondo, indicibile e incomprensibile. E mentre lo si tocca, esso (il toccato) si ritrae, come fa il Risorto quando la Maddalena sta per toccarlo (“Noli me tangere”, Gv 20, 17). Forse il vero contatto è con ciò che si ritrae, e che resiste al contatto stesso, come ritraendosi nel mistero e insieme però provocando colui che è entrato in contatto (“Va’ dai miei fratelli”). È un toccare al quale è legata una qualche intuizione del mistero; un’intuizione che bisognerà esprimere, facendola diventare parola, pensiero, comprensione. Ma le parole, pur importanti e necessarie, resteranno povere rispetto al surplus.
Qualcosa di simile avviene nelle relazioni umane. Possiamo sperimentarle (sentirle) belle, e, quando ci interroghiamo sul perché sono belle, possiamo scoprire (tentare di dire) che lo sono, per esempio, perché ci si è sentiti profondamente rispettati, accolti, liberi… O, ancora, possiamo incontrare una bella persona che tocca il nostro cuore, senza saper bene, almeno all’inizio, il perché.
Anche nell’esperienza liturgica è in gioco il bello. Una comunità sente che è bello incontrarsi; esprime riconoscenza; fa esperienza del dono di Dio, di gratuità. Ci si sente toccati dal mistero e, insieme, lo si tocca. Di fatto, si tocca Dio, si mangia il corpo di Cristo. La liturgia ha carattere sacramentale, prima che di riflessione o di comprensione. La parola stessa della liturgia ha carattere performativo, prima che formativo; ha un forte legame con i gesti, i riti, i simboli, le azioni; è azione essa stessa. Nella liturgia ci si radica (si entra in contatto) in una tradizione vivente; si entra in contatto con un evento che viene da lontano, che si fa presente, si ri-presenta, sottraendosi ad ogni appropriazione. Tutti questi significati sono vissuti prima che compresi. Non si può dire che sono vissuti perché prima di tutto sono compresi; è vero il contrario: si comprende l’evento (o qualcosa dell’evento) perché lo si vive. E tale comprensione, tra l’altro, ha bisogno di una certa continuità di pratica di contatto con l’evento.
Le linee del bello sono quindi molteplici. Non si tratta soltanto di valorizzarle tutte, perché – come si è detto – non si tratta di utilizzare degli strumenti per una comprensione più piena della fede. Si tratta, piuttosto, di affinare il gusto del bello in tutte le esperienze; di legare la catechesi al bello; di favorire belle azioni catechistiche; di situare la catechesi in una sorta di pratica del bello, di legare la comprensione al toccare.
È importante, tuttavia, decifrare il senso del bello in relazione al soggetto e, allo stesso tempo, in relazione alla Rivelazione, senza dimenticare il legame, proprio della tradizione cristiana, del bello col bene e col vero.
Il bello tocca il soggetto nel surplus del suo essere soggetto, laddove il soggetto non si domina, cioè al di là della sua coscienza. Tocca i sentimenti, l’inconscio, il sé che precede l’io. Parla, più che al pensiero, alla carne. Non c’è un problema, oggi, di riconciliazione con la propria carne? Se la carne è il luogo della debolezza, delle pulsioni difficili da controllare, di cui gradualmente prendere coscienza (facendole entrare nella coscienza), essa è anche il luogo della sincerità del soggetto, forse il luogo della possibilità di riconciliarsi con la propria creaturalità, o forse il luogo in cui si trovano le tracce della redenzione, del Dio che si è fatto carne.
Al livello della carne, Dio ci tocca, mentre, al livello della coscienza, noi comprendiamo la significatività della sua azione per la nostra vita (quest’ultimo è un piano più mediato; mediato dalla nostra coscienza). Oggi c’è bisogno, prima di tutto, di sentirsi toccati. Ciò fa uscire dalla solitudine e diviene condizione (luogo) per dare senso alla vita o per scoprirne il senso, per fare una graduale esperienza di Dio che dà senso alla vita. Tutto ciò obbliga – ritorna la questione antropologica – a una ricomprensione del soggetto a partire dalla carne, del di più di noi in noi, e, allo stesso tempo, a una ricomprensione dell’azione di Dio (Rivelazione), in termini di azione, di amore, di contatto; si potrebbe dire, in termini sacramentali.
Questa prospettiva, che porta alla valorizzazione dei sentimenti e dell’emotività (o forse bisogna dire: alla riconciliazione coi sentimenti e con l’emotività) e di tutto ciò che precede il pensiero, può far paura, può dare l’impressione di una deriva sentimentalista e soggettivista. Il pericolo è reale. Lo si supera non ritornando al primato della ragione e del controllo del pensiero, ma, prima di tutto, attraverso una educazione pratica all’altro, all’alterità, all’appello, di apertura alla trascendenza. Ciò avviene attraverso una pratica abitudinaria (bisogna liberare la parola abitudine dalle sue connotazioni negative), fatta di atti esteriori (anche la parola esteriorità va liberata dalle connotazioni negative). E tale pratica è necessariamente in una comunità che ci accompagna, che ci aiuta a mantenerci aperti.
Si avverte che la pratica del bello si connette con la pratica del bene e del vero. Il bello non può essere pensato al di fuori di una pratica di relazioni decentrate, al di fuori di una pratica dell’ospitalità, al di fuori del bene. D’altra parte, non può essere nemmeno pensato al di fuori della pratica della sincerità di sé e dell’apertura alla verità, a ciò che si impone da sé. La connessione del bello al bene e al vero aiuta a non cadere in un estetismo superficiale e illusorio. Allo stesso tempo, la pratica del bello nei camini di fede aiuta a non cadere in prospettive intellettualiste o moraliste; al contrario, aiuta a tener vivo il senso autentico della verità e della bontà. Dando fiducia a Dostoïevski e parafrasando la sua intuizione, potremmo dire: se è la bellezza che salverà il mondo, forse sarà la stessa bellezza a ridare senso all’educazione alla fede.
Se non altro, è importante interrogarsi. È il senso del prossimo Convegno dell’AICa. Nell’ipotesi iniziale il titolo era: “La via della bellezza: arte e poesia nella catechesi”. In una riflessione successiva, volendo aprirsi a tutte le vie del bello e volendo superare un approccio strumentale, si è ipotizzato il titolo: “Vie del bello in catechesi. Per entrare in contatto”. Dopo il Convegno sulla comunità di pratica e sulla catechesi come pratica, si era ipotizzato: “Le pratiche del bello in catechesi”. Alla fine si è deciso per “Vie del bello in catechesi. Quali prospettive?”. Il titolo invita a guardare avanti e a osare riflessioni nuove.
Atti del Convegno
I contributi del volume fanno emergere i diversi aspetti implicati nella questione del bello e della pratica del bello, facendo interagire diverse prospettive. Questo viaggio fa cogliere un’istanza fondamentale che fa da motivo di fondo. La catechesi attuale si dibatte in un gioco di composizioni, tra obiettivi e contenuti, tra istanza veritativa e attenzione alla globalità della persona, tra esigenze comunitarie e riconoscimento della soggettività delle persone. In tutto ciò si affaccia l’istanza di tenersi aperti alla sorpresa e all’oltre dell’evento. La via estetica e la pratica del bello possono tener vivo il senso di grazia dell’evento e allo stesso tempo raggiungere il soggetto in quel luogo segreto che precede la sua stessa libertà e capacità progettuale.
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È possibile chiedere una copia cartacea degli Atti scrivendo alla segreteria. Inoltre è possibile scaricare in formato PDF i materiali del convegno:
- brochure
- Salvatore Currò, Dalla comunità di pratica alla pratica del bello